Quando a Prato si parla di Liberazione si pensa al 6 settembre: il giorno in cui la città fu liberata dai nazi-fascisti, quello della strage dei martiri di Figline. Ma non tutti, nella provincia di Prato, videro finire la guerra quel giorno. In montagna si continuò a combattere e a soffrire ancora per settimane, in un conflitto tra un esercito in fuga e povera gente in cerca di normalità. Giorni e settimane che come spesso accade finiscono per sparire dai libri di storia e anche dalla memoria di chi li ha vissuti.

Questa è la storia di Cesira Magnani, che tutti chiamano ‘Cicia’. 87 anni, adesso vive a Sesto Fiorentino dopo aver passato l’infanzia e la giovinezza alla Badia di Montepiano. Aveva trascorso gli anni della guerra in paese, insieme alla sua famiglia con gli zii, i cugini, i vicini. C’era poco da mangiare, ma in montagna qualcosa si trovava sempre e tutti si aiutavano tra di loro.

Nell’agosto del 1944, mentre la guerra volgeva al termine e i tedeschi non volevano cedere, ‘Cicia’ era una bambina. «Una mattina, appena svegli, trovammo alla Badia un annuncio dei tedeschi che diceva che entro le 11 avremmo dovuto lasciare il paese – racconta Cesira – i più giovani fuggirono subito, ma noi bambini, insieme agli anziani, non potemmo fare altro che rimanere. I tedeschi arrivarono e fecero incamminare tutti in direzione Castiglione dei Pepoli. Io invece li raggiunsi più tardi, su un mezzo della Misericordia». Cesira infatti aveva un difetto congenito alla gamba che le ha sempre reso difficile camminare. Anche per questo motivo il suo destino avrebbe potuto essere peggiore, se quella stessa notte i suoi familiari non se la fossero caricata sulle spalle per scappare dai tedeschi. Appena arrivati a Castiglion dei Pepoli infatti, gli abitanti del luogo li avevano esortati alla fuga per evitare di essere portati a San Giovanni in Persiceto e poi caricati su un treno diretto chissà dove. Così Cesira Magnani, insieme ai suoi parenti, si avventurò nel bosco portandosi dietro le poche cose che poterono mettere nelle borse, direzione monte Baducco, dove sarebbe rimasta per le settimane successive. «Ci sistemammo in un casale abbandonato insieme ad altre famiglie – continua Cesira – Vivevamo tutti ammassati, senza acqua, con poco cibo. Fu davvero difficile. Aspettammo di poter rientrare nelle nostre case, mentre ci arrivavano notizie dai partigiani, appostati vicino a noi, sull’imminente disfatta tedesca. Ma i tedeschi tennero duro fino alla fine».

Cesira Magnani negli anni '60

La località di Montepiano aveva un ruolo importante nell’occupazione tedesca della Val di Bisenzio. Qui si insediarono infatti gli ingegneri della Todt, l’impresa tedesca che stava costruendo la Linea Gotica. Per mesi soggiornarono alla pensione Roma, in mezzo alla gente; ma quando si avvicinò l’assalto finale alla Linea Gotica, i tedeschi vollero campo libero e spostarono la popolazione civile. Questa barriera fatta di fortificazioni e trincee di fatto fu l’ultima a cadere. Venne difesa fino alla fine. Montepiano era strategica: la vicinanza alla Linea Gotica e anche alla Direttissima lo rendeva un luogo centrale per le comunicazioni tra Nord e Sud d’Italia. Un comando di truppe tedesche era anche posizionato nel paese, nella villa del notaio Gualtieri. Ma gli invasori avevano requisito anche le case più belle: Torre Alpina, la villa Delfiniana. Quella convivenza forzata con il nemico durò per mesi e per la popolazione di Montepiano fu un periodo durissimo. La chiesa era diventata il rifugio per gli sfollati di Vernio e Cantagallo, ma anche un centro di smistamento per le persone che venivano usate per finalità belliche. Il 24 agosto ci fu un violento bombardamento su Montepiano e nelle prime settimane di settembre, dopo altri bombardamenti, le truppe tedesche che si preparavano alla fuga coinvolsero in una battaglia disperata anche la popolazione.

Il 23 settembre 1944 gli alleati entrarono finalmente a Montepiano: sono quelli della 34th Infantry Division Red Bull. Fu una festa: cibo, caramelle, cioccolata e regali a una popolazione ridotta alla fame. Sono americani e sudafricani a liberare la zona. Il pericolo però non era passato: iniziò la fase di sminamento, nei campi e nei boschi, e anche le case erano da bonificare. «I tedeschi prima di andarsene avevano lasciato nei camini e nelle stufe i proiettili, così da farci saltare in aria non appena le avessimo accese – racconta Cesira – La nostra casa era devastata, la porta era volata in mezzo alla piazza. Pulimmo tutto con rabbia: non volevamo che rimanesse traccia di quella gente».

Il 23 settembre 1944 gli alleati entrarono finalmente a Montepiano: sono quelli della 34th Infantry Division Red Bull. Fu una festa: cibo, caramelle, cioccolata e regali a una popolazione ridotta alla fame. Sono americani e sudafricani a liberare la zona. Il pericolo però non era passato: iniziò la fase di sminamento, nei campi e nei boschi, e anche le case erano da bonificare. «I tedeschi prima di andarsene avevano lasciato nei camini e nelle stufe i proiettili, così da farci saltare in aria non appena le avessimo accese – racconta Cesira – La nostra casa era devastata, la porta era volata in mezzo alla piazza. Pulimmo tutto con rabbia: non volevamo che rimanesse traccia di quella gente».

Le truppe alleate rimasero per mesi: alcuni in maniera stabile, altri di passaggio. Montepiano restava strategica per attraversare l’Appennino. «Mia madre era una donna generosa e cercavamo sempre di aiutare. Anche loro ci aiutarono: a me dettero la penicillina. Quello fu un inverno durissimo, con tanta neve. Noi eravamo abituati, ma qualcuno dei soldati la neve non l’aveva mai vista – continua Cesira – Facemmo amicizia con un soldato sudafricano, che ogni giorno veniva a casa nostra a prendere il caffè: si metteva di fronte al fuoco, scriveva una lettera, stava insieme a noi. Capivamo poco di quello che diceva, ma era un bravo ragazzo, si vedeva che aveva tanta nostalgia di casa».

L’esercito americano era di stanza a Villa Strozzi, poco sopra La Badia. «Per Natale vennero a prenderci in paese con i camion e ci portarono a casa loro. Lì vidi il mio primo albero di Natale, da noi non si usava ancora farlo. Era tutto addobbato di caramelle e frutta, cose che per noi bambini erano speciali. Ballammo e cantammo tutti insieme e fu una festa bellissima». Poi anche gli alleati se ne andarono, mentre il paese era ormai impegnato nella ricostruzione. Quei soldati, quella guerra, avevano cambiato la gente, niente sarebbe più stato come prima. Non solo per gli abitanti della Badia di Montepiano.

Un giorno d’estate, esattamente dieci anni dopo, era il 1954, una famiglia straniera si ferma nella piazza della Badia di Montepiano. «Lo riconobbi subito, anche se era passato tanto tempo – racconta commossa Cesira – Quel soldato sudafricano era venuto a trovarci, portando con sé la moglie e i suoi due figli. Voleva mostrargli i luoghi dove aveva combattuto, voleva fargli conoscere le persone che aveva incontrato. Fu un momento di grande commozione. La mamma li invitò a pranzo e trascorremmo l’intera giornata insieme. L’inglese lo capivamo poco, ma riuscimmo a intenderci lo stesso».

La Badia di Montepiano nel 2019
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