“Mai mi sarei aspettata di dover tornare in piazza per difendere il diritto all’aborto: i diritti ci metti una vita per conquistarli e un secondo a perderli. Specie quando si parla di quelli delle donne, perché solitamente a decidere sono uomini”. Queste sono le parole di Loredana Dragoni, una delle socie fondatrici del centro antiviolenza “La Nara”.
C’era anche Prato a Verona. Ieri pomeriggio - sabato 30 marzo - nella città veneta si è svolta una grande manifestazione per chiedere più diritti per donne e omosessuali e riaffermare a gran voce quelli conquistati a fatica negli anni. Una manifestazione in contrapposizione ad un congresso dagli argomenti molto distanti da quelli che ci si aspetterebbe da uno stato che garantisca principali i diritti civili ai suoi cittadini.
A manifestare c’erano giovani attiviste, vecchi con al collo bandiere della pace sbiadite dai tanti anni di cortei, gente di mezza età colorata a festa, bambini, uomini e donne. E anche tante donne e uomini di Prato: rappresentanti del centro antiviolenza “La Nara”, una delegazione della Cgil, il comitato Gay e Lesbiche e semplici attiviste di “Non una di meno”, il comitato femminista promotore del corteo.
Una mobilitazione davvero importante: 150 mila persone per le organizzatrici, solo 30 mila per la questura. Chi c’era si è potuto rendere conto da solo che questo ultimo dato era davvero inverosimile e non ha reso giustizia alla mobilitazione che in Italia è riuscita a coinvolgere masse di dissidenti pacifici.
Per strada l’aria era di festa. Si gridava per chiedere diritti e salvaguardare quelli conquistati con anni di battaglie e discussioni: l’aborto, il divorzio, sul lavoro e su tante questioni di genere oggi aperte più che mai per quanto riguarda donne e omosessuali.
Il corteo diventa, tra slogan e striscioni, un’occasione per parlare e confrontarsi: “La famiglia naturale - racconta Elisa Maurizi del centro La Nara -, ovvero patriarcale e eterosessuale, promossa da questo congresso mondiale è lo scenario entro cui si consumano le violenze, spesso manifeste e assistite da parte dei figli e delle figlie che col decreto Pillon dovranno frequentare in egual misura il padre violento e la madre vittima, crescendo con schemi e esempi che li segneranno per il resto della vita. Nei centri antiviolenza incontriamo e aiutiamo con le nostre strutture le donne e i loro figli che ci raccontano la quotidiana violenza familiare dalla quale chiedono di uscire”. E’ una questione culturale: “tutti siamo contro la violenza sulle donne, lo manifestiamo i vari 8 marzo o 25 novembre e siamo tutti uniti nel difenderle a parole, ma l’atto violento è solo la punta di un iceberg fatto di errori che noi donne subiamo, costruito dai linguaggi quotidiani, gli stereotipi di genere che insegniamo ai bambini, fino ad arrivare al ruolo di potere maschile al quale ci troviamo a sottostare nella totalità degli ambienti che frequentiamo, da quello familiare al lavorativo”.
“Ci sono due problemi principali - racconta Chiara Rossi, segretaria regionale Toscana Fisac Cgil - per quanto riguarda il problema delle donne e il lavoro: uno legato alla segregazione orizzontale, il fatto cioè che le donne lavorano meno degli uomini e, dall’altro, una questione verticale, ovvero che le donne non riescono a raggiungere posizioni apicali e guadagnano meno a parità di impiego. E poi sta svanendo la cultura dei diritti: dove c’è il sindacato riusciamo a portarla avanti ancora, dove manca le situazioni di disparità sono molto più aggravate”.
Le donne a Verona sono tantissime, ma soprattutto cantano: cantano la loro autodeterminazione, la loro libertà, invocano il loro diritto di scegliere di divorziare, abortire, fare sesso con chi vogliono, “con rabbia contro chi - raccontano le donne di “Non una di Meno” - vorrebbero negare le nostre esistenze libere rendendole terreno di conquista e propaganda”.