«Io so difendermi, riuscirò a farlo tornare coi piedi per terra». Pensava questo Anna dopo essersi rivolta la prima volta al Centro Antiviolenza di Prato: c'era andata dopo che Marco aveva minacciato con un coltello da cucina il loro figlio di 10 anni. «Se non ti levi, ti faccio fuori», gli aveva urlato, brandendo la lama a pochi centimetri dal suo volto. Anna si sbagliava.

Si erano conosciuti al lavoro: lui, 49 anni, persona gentile, premurosa e riservata; lei, due anni più giovane, aveva avuto un matrimonio alle spalle. Cominciano a frequentarsi: nel giro di tre anni nascono due bambini e decidono di sposarsi. È il 2007: il padre di Anna è gravemente malato e lei ha il sogno di sposarsi prima che lui se ne vada per sempre.

La loro relazione va avanti: lui è un po’ geloso ma niente che faccia preoccupare o presagire quello che accadrà in seguito. Nel marzo del 2014, a Marco si presenta l’occasione di chiedere il pensionamento anticipato: «Perché no? Almeno mentre lavori, io potrò occuparmi dei bambini e della casa oppure fare qualche lavoretto di giardinaggio per arrotondare la pensione». È sempre stato appassionato di giardinaggio, dell’orto, della vita all’aria aperta. Anna è contenta della scelta di suo marito: chi non lo sarebbe, a questi patti? Queste intenzioni non si concretizzeranno mai. Marco cade subito in depressione: ogni giorno esce di casa per comprare un "Gratta e Vinci" da dieci euro e passa sempre più tempo al computer e in compagnia di una bottiglia di vino o di qualsiasi altro alcolico trovato in casa. Tutti i giorni fa acquisti online e presto la casa diventa un vero e proprio magazzino di oggetti inutili. Spesso nervoso e inavvicinabile, comincia una terapia di psicofarmaci.

La convivenza familiare si complica. Diventa sempre più geloso e Anna, che non vuole discutere tutti i giorni, lo asseconda: rinuncia alle maglie scollate, alle gonne giudicate troppo corte e a nominare più di due volte il nome di un collega per non essere chiamata “puttana”. E ancora, sempre per non farlo arrabbiare: niente cene con le amiche, niente feste di Natale con i colleghi e i regali agli amici fatti solo di nascosto.

Iniziano le prime minacce verbali e quei gesti come per tirare uno schiaffo. «Quando provava ad alzare le mani, non avevo paura, anche perché il più delle volte era ubriaco e lo sapevo gestire», racconterà lei. Poi il coltello da cucina e la minaccia al bambino: «Io e te ci possiamo anche separare, ma se entra un altro uomo in casa io faccio fuori te e lui», le urla una sera lui, «Babbo smetti, la mamma ha ragione», gli risponde il bambino mettendosi in mezzo. Questo episodio convince Anna a rivolgersi al Centro Antiviolenza per avere qualche consiglio su come comportarsi e gestire una situazione che stava diventando pericolosa. Dopo una serie di colloqui, decide quindi di riprovarci. Così si trasferiscono lontano dalla città, perché l’amore per la campagna gli avrebbe fatto senz’altro bene. Ma ormai è troppo tardi. Due anni dopo infatti, Anna si ripresenta al centro antiviolenza per non tornare mai più a casa. I figli le hanno raccontato di aver visto il padre montare tre vecchi fucili e armeggiare con una scatola piena di cartucce; interrogato, lui le racconta di esserli andati a prendere nella casa paterna, nel suo paesino d'origine. Allora Anna si spaventa e lo supplica di non tenere armi in casa, di riportarle al loro posto. Marco acconsente e le riporta tutte tranne una, che nasconderà alla famiglia.

In casa, la situazione si fa sempre più tesa: le minacce diventano così pesanti che Anna non si muove senza un coltello nascosto dentro lo stivale. Un giorno, scoperta la menzogna del fucile, comincia a liberarsi di tutte le cartucce trovate in casa. Marco la scopre e l’aggredisce, la picchia, la morde. Anna trova il modo di liberarsi e scappa coi figli, prima al pronto soccorso e poi da alcuni parenti. In seguito, scattata la denuncia, le viene proposto di andare in una delle case rifugio gestite dal Centro Antiviolenza. «Non ci penso nemmeno - risponderà lei - io non ho fatto niente, non voglio rinunciare alla mia libertà e quella dei miei figli per lui». Però ha paura e per un certo periodo segue il consiglio di vivere in sicurezza: non va al lavoro, non manda i figli a scuola. Viene emesso un decreto restrittivo per Marco che, tornato nel paese dei genitori, cerca di contattare i figli e di convincerli che in fondo non ha fatto niente di male. Cerca anche di manipolarli e di fare pressione psicologica su Anna: questi comportamenti trasformeranno il decreto restrittivo in arresti domiciliari. Oggi, mentre la separazione e il processo penale a carico di Marco procedono per la loro strada, Anna ha ricominciato a lavorare e a gestire da sola la vita dei due figli. È stanca, ma è libera.

La pubblicazione della storia è stata autorizzata,   garantendo anonimato e non riconoscibilità.

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