Dopo le prime sedute in cui non era riuscito a trovare le parole per descrivere quello che provava, il figlio maggiore di Anna iniziò a disegnare. C’era una casa, la mamma sdraiata per terra e un uomo che rideva al telefonino con un coltello in mano, mentre lui osservava la scena da dietro una porta. Non servirono né parole né psicologi per capire chi fosse quella figura: era Marco, che, come dirà più tardi il bambino, “non è un babbo come gli altri”. Per restare incinta del primo figlio Anna si era dovuta sottoporre a una pesante cura ormonale, che le aveva trasformato il corpo. A lei questa cosa non interessava perché era riuscita a esaudire il suo sogno più grande: “Ti porterò via da questa cicciona, non temere”, bisbigliava Marco al figlio ancora in grembo.

Possessivo, sapeva sempre come andavano fatte le cose: due aspetti del carattere di Marco che Anna aveva sempre tollerato. Ma gli scatti d’ira, le urla e le offese stavano diventando sempre più frequenti. Lui non perdeva occasione per sminuirla e far notare quanto fosse sbagliata, brutta, incapace. “L’ho creato io questo mostro, non vedevo altro che lui nella mia vita, per me era come un dio” si rimproverava Anna, sperando di poterlo aiutare a calmarsi. Ma Marco non si calma, i figli - due maschi - sono piccoli, richiedono anche la sua attenzione, i turni al lavoro sono stancanti e inizia a bere, a vedere altre donne, ad allontanarsi da casa.

Quando è a casa è violento, non si vergogna a picchiare Anna di fronte ai bambini, che stanno crescendo e iniziano a capire che la mamma non sta bene. “Che ci facciamo qui?” le domanderà una sera il maggiore, vedendola piangere. Un giorno Marco le tira in testa un libro mentre sta dando da mangiare al più piccolo e il maggiore reagisce tirandogli un pugno in pieno volto: “Vedi cosa insegni ai tuoi figli?” le urla contro lui, “No, babbo. Questo me lo hai insegnato tu”. Marco allora attacca una cantilena guardando negli occhi il ragazzo. Una cantilena che recita solo due parole: “Devi morire, devi morire, devi morire...”. “Quella voce”. Quando Marco fa “quella voce” arriva il terrore. “Le botte passano, ma quel senso di paura resta ancora oggi e ti fa impazzire”. Una volta Anna era andata a trovarlo coi bambini sul posto di lavoro. “Non hai paura di me? E se ti ammazzo i bambini?” le bisbiglia nell’orecchio con quella voce. Anna inizia ad urlare e a chiamare i colleghi, ma Marco prontamente torna rassicurante e domanda “Hai bisogno di aiuto?”. Era sempre così: lui la picchiava, poi chiamava i suoi amici per raccontargli che lo aveva picchiato lei. Questo gioco fa impazzire Anna, che ogni giorno è sempre più sfinita: “Mi sentivo morta, più lui si accaniva su di me e più io non provavo niente, ero come carne morta”.

Una notte Anna scappa di casa in sottoveste: i bambini erano dai nonni e lui era andato via tutto il fine settimana non si sa per quale motivo. Alle due di notte sente sbattere la porta di casa e in un attimo si ritrova davanti Marco, ubriaco, che la scaraventa a terra e comincia a riempirla di botte,  ad accusarla  di tradirlo e di avergli fatto distruggere l’auto mentre tornava in tutta fretta a casa. Anna fugge e va al pronto soccorso. Non esiste ancora il codice Rosa, entrerà in vigore qualche anno dopo (2014), che le avrebbe garantito un percorso di aiuto per uscire da quella situazione, attraverso enti e istituzioni adeguate. Il percorso glielo indicano le amiche, che la costringono a raccontare quello che ha vissuto ai suoi genitori, ignari di quello che la figlia sta passando da anni. Insieme si rivolgono al centro antiviolenza di Prato per poi chiedere il divorzio da Marco. Si presenta ubriaco anche all’appuntamento in cui avrebbe dovuto dimostrare di essere un buon padre di fronte al tribunale dei minori. Un’altra volta prova a portarle via i bambini in un centro commerciale. “L’ho creato io questo mostro” continua a rimproverarsi

Anna, che gli presta pure dei soldi per comprarsi una casa e non andare in affitto. Forse per questo motivo non lo ha mai denunciato per tutto quello che le ha fatto subire. “Quando lo andavamo a trovare - racconta il figlio più grande oggi - per farci addormentare ci raccontava la storia di un boscaiolo che scappava nel bosco per via dei problemi che aveva nella città in cui viveva, era la sua vita romanzata per sembrare buono agli occhi degli altri, cosa che ormai so non essere vera”.
Per far pace con il senso di colpa ci sono voluti anni: adesso Marco vive a poche centinaia di metri dalla casa sua e dei bambini, porta a scuola il più piccolo ogni giorno, mentre il maggiore non lo vuole vedere. “Lui riesce sempre a rovinare tutto - le racconta il ragazzo -, non voglio più vedere la mia famiglia urlarsi contro, per me è una persona come un’altra”. Anna negli anni è riuscita addirittura a provare anche tenerezza per quest’uomo, ma mai rabbia. Adesso ha imparato a gestirlo e a tenerlo a debita distanza dalla sua vita e da quella dei suoi figli. Per lui adesso è rimasta soltanto l’indifferenza.

La pubblicazione della storia è stata autorizzata,   garantendo anonimato e non riconoscibilità.

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