Ma siamo davvero così sicuri che il 2020 sia da buttare? La risposta istintiva è un ‘Sì’ netto e sentito. Del resto, i motivi d’avversione all’anno appena trascorso sono così ovvi che non c’è bisogno di elencarli. Un esercizio a cui persino il ‘Time’ si è sentito di dover dedicare la proverbiale copertina. Non sarà sfuggito a nessuno che la persona dell’anno, per il giornale che usa la sua cover di dicembre a questo scopo, non è una persona ma una sensazione: la volontà di cancellarlo dai nostri ricordi, dal nostro percorso.

La superficie delle cose dunque è così ruvida che sembra impossibile possa lasciar spazio ad altre opzioni: basterebbero i morti e la sofferenza – fisica, sentimentale ed economica - provocati da un virus globale così subdolo per mettere un'enorme croce su quel calendario, dando al contempo conto con rispettoso silenzio al dolore di tutti.

Tuttavia, sotto sotto, paiono esserci dei motivi per far (r)esistere questo 2020 oltre la sua nomea, oltre la coltre di devastazione che ha seminato. Senza voler essere irriverenti partiamo da un approccio per così dire pratico: non facciamo filosofia se sosteniamo che guardandoci indietro, nelle nostre vite, fatichiamo a non trarre alcuni insegnamenti dalle esperienze negative che abbiamo vissuto. Avremmo preferito imparare diversamente, si dirà. Ma questo è quanto: non sapremo mai cosa avremmo realmente dedotto da un’esperienza senza averla vissuta.

Scendiamo sulla terra: quali sono le 'lezioni' della pandemia? Che bisognerebbe avere sistemi sanitari maggiormente pronti, ovviamente; che le esperienze degli altri Paesi che vivono situazioni simili sono da prendere in considerazione con maggiore consapevolezza; che i vari Stati sono più vicini e meno privi di veri confini di quel che si possa pensare; che la visione nazionalistica o regionalistica è in fin dei conti penalizzante per la società, dunque per gli individui; che conviene – economicamente, finanziariamente, ancor prima che pragmaticamente – investire risorse nella ricerca. Questo, oggi, “lo sanno tutti”, anche se il sistema che ci regola e la struttura delle priorità costruita nell’ultimo secolo non ci aiuta a mettere in pratica le deduzioni che sarebbe naturale applicare. Però, già il presupposto che oggi sia unanimemente riconosciuto, che non sia solo una teoria, che sia innegabile – anche se non si riescono a trarre conseguenze adeguate – è importante. Un nudo fatto, figlio primogenito di questo 2020. È un padre omicida, infanticida, ma come dalle parti di Firenze abbiamo imparato prima che altrove, forse, non è un padre da condannare a morte.

Non possiamo forse riabilitarlo, ma mettiamolo alla sbarra, processiamolo: ascoltiamo cos’ha da dire quest’anno come imputato. Lo immagino lì, sotto lo sguardo di tutti, che risponde come un assassino che ha qualcosa da dire sulle sue vittime, noi e quelli che non ci sono davvero più.

Credo che tra i suoi infiniti demeriti, a prescindere dal fatto che lo scorrere del tempo non può avere dei fini buoni o cattivi nel suo fluire, ci siano persino dei meriti involontari: un anno che ha avuto l’ardire di mostrare finalmente il Re nudo delle differenze, che ha svelato il non detto di molte situazioni equivoche. Parliamo dell’Italia, della Toscana, di Firenze, di Prato. Il 2020, interrogato, ci dice che il nostro sistema economico è finto: che chi lavora lo fa spesso fuori dalle regole e che quelle stesse regole oggi non permettono di risarcire adeguatamente le persone; che una situazione d’instabilità che dura 12 mesi toglie equilibrio a una parte della popolazione – i giovani, le donne, gli artisti, i precari, partite Iva – e non scuote gli altri; che la macchina che ci guida non è capace di riconoscere noi e le nostre specificità; che i problemi di mancato adeguamento dei distretti produttivi (come quello tessile pratese) non possono più rinunciare a digitalizzarsi e a rendersi totalmente sostenibili, pena la loro soppressione; che il modello turistico dell’airb&b e del livellamento verso il basso dell’offerta cittadina è uno specchietto per le allodole; che quando pensavamo di bastarci da soli – come Stato, come Regione, come città, come persone - eravamo totalmente fuori strada, perché senza la catena di solidarietà che si sta per azionare le nostre vite piomberebbero nell’insensatezza.

In un’epoca in cui siamo giustamente concentrati sulla valorizzazione delle differenze, quindi sul loro reale rispetto, sarebbe idiota non focalizzarsi su quelle messe in evidenza da questo periodo rivelatore, da questo imputato che vorremmo frettolosamente mettere alla gogna. La realtà di una società così squilibrata, organizzata così male, per cui è tanto necessario intervenire, fino al 2019 era una delle tante idee o visioni del mondo in campo. Un argomento di discussione, una concezione confutabile dal primo benaltrista che passa. Ciò che davvero siamo ce l’aveva suggerito qualche libro di filosofia, ma ce l’ha detto a voce alta – e ce lo continuerà a dire a processo, se glielo permetteremo - il terribile 2020.


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