Sarebbe stata una piena vittoria dei manifestanti di "Liberi dai Decreti Salvini – Prato sta con gli operai" se alle 18,20 di sabato 18 gennaio qualcuno, diciamo un deficiente troppo entusiasta, non avesse sparato nel cielo di piazza del Comune un fuoco d'artificio. Non un petardo qualsiasi, proprio un fuoco d'artificio. E dopo il primo non ne avesse sparato un secondo e poi ancora un terzo appena sopra i merli del museo civico. Come se in Italia non ci fossero decenni di manifestazioni e di scontri di piazza da cui imparare come non tirare una corda già troppo sottile di suo. E invece niente.

Perché tra l'altro il corteo organizzato dai Sì Cobas aveva ormai centrato il suo obiettivo: se n'era fregato dei divieti e aveva eluso i blocchi fino a piazza del Comune – conquistata correndo, esultando a braccia alzate – esaurendosi poi in un discorso in cui il leader Luca Toscano rivendicava la giustezza della protesta a fianco dei lavoratori sfruttati, l'ingiustizia delle multe agli scioperanti della Superlativa e chiedeva le scuse del sindaco Biffoni ai lavoratori come pure le dimissioni del questore. Invece quel primo botto, una corolla di luci verdi e rosse su una piazza ormai semivuota, è servito solo a risvegliare le forze dell'ordine, rimaste fino a quel momento immobili sotto le logge nei loro caschi di plastica dura. Il secondo botto li ha messi in moto e mentre Toscano chiedeva loro di non avanzare, il terzo ha finito per farli schierare per sgomberare la piazza. I due schieramenti si sono avvicinati ed è stato così che in un sabato pomeriggio qualunque, tra signore cariche di shopper, ragazzini seduti ai tavolini dei bar, famiglie, curiosi e coppie con cani, sono cominciate a piovere manganellate come non succedeva da decenni. Se mai è successo prima, in centro storico. Una prima scarica accanto alla fontana del Bacchino, una seconda all'imbocco di via Cairoli. Poi il centinaio di manifestanti è sceso veloce verso il Metastasio, ha svoltato in piazza delle Carceri e da lì, lungo viale Piave, ha di nuovo raggiunto piazza San Marco per dirigersi infine alla stazione, dove attendevano i pulman. Ma questa è stata solo la fine di un pomeriggio da dimenticare per chi gestisce l'ordine pubblico della città.

Piazza Stazione

Alle 16 le bandiere rosse dei Cobas stanno sventolando davanti alle linee squadrate della stazione centrale. Nell'aria c'è l'odore dei fumogeni, i cori contro Salvini che si alternano a quelli della lotta, e mentre si aspetta la partenza si mangiano panini e cioccolata,  si tendono gli striscioni, si beve birra, si fuma. C'è il clima delle grandi occasioni, quegli abbracci di chi vive a centinaia di chilometri di distanza e torna a incontrarsi di nuovo sotto una bandiera comune, quella dei Cobas. Sono più di un migliaio e sulla faccia di alcuni si legge un entusiasmo che forse a Prato dovremmo prendere con la dovuta serietà: quello di chi vede la propria lotta contro le ingiustizie e i soprusi, una lotta da immigrato sfruttato, che diventa la stessa lotta di centinaia di persone provenienti dalla Campania come dalla Liguria, dal Lazio, dal Veneto e dal resto della Toscana. Pakistani, indiani e senegalesi – solo per citarne alcuni -  hanno gli occhi lucidi di stupore, sorridono, lanciano cori e registrano ogni momento della preparazione. Sembrano sentirsi parte di qualcosa, i Sì Cobas, e forse da quando sono in Italia è la prima volta che gli capita.

Foto di Valentina Ceccatelli

Alle 16,45 uno di loro si stacca dal gruppo, supera il nastro bianco e rosso con cui è delimitato il giardino della stazione e depone a terra un fazzoletto bianco. Lo stende sull'erba con attenzione, ne stira gli angoli con le dita, poi si inginocchia e comincia a pregare in direzione della Mecca. Qualche minuto appena perché il corteo si sta muovendo: allora si rialza, ripiega il fazzoletto e rientra veloce nei ranghi.

La manifestazione "come ci pare"

Alle 16,50 il corteo si muove. Dietro al furgone preso a nolo che lo apre, i leader della manifestazione scandiscono cori e poi Elena, una delle studentesse multate, racconta com'è andata quel giorno. Basta coi Decreti Salvini, dicono i cori. Basta con quelli che non ci lasciano liberi di manifestare. Basta con le multe. Dietro sventolano le bandiere dei Cobas ma anche quelle dei Carc, del Partito Comunista, della Sinistra Italiana, degli anarchici, del PD. E ci sono striscioni dell'"opposizione Cgil – Il sindacato è un'altra cosa" e molti cartoni scritti a mano che denunciano il caporalato nelle grandi catene. Giornate lavorative di sedici ore, compensi irrisori, zero tutele. Già sul ponte XX Settembre, a quattrocento metri da piazza San Marco, circola la voce che il corteo proverà a sfondare. Laggiù, all'imbocco di viale Piave, lo attendono le luci intermittenti della polizia. Il corteo attraversa il ponte, imbocca viale Vittorio Veneto. Sui vetri del fast food compaiono le facce incuriosite dei clienti con la bocca piena. Dai bar e dagli altri negozi fanno capolino i titolari e gli avventori, dal gruppo che circonda la fermata del bus – che non passerà perché tutto il traffico della zona è bloccato – s'alza un'esclamazione secca, forse di protesta, in una lingua che non siamo riusciti a decifrare. C'è un gruppetto di vecchi pratesi che confabula di fronte alla tabaccheria e mentre un ragazzo straniero serra la porta del suo negozio, una coppia risale il viale tenendosi per mano.

E' sera e il "buco" di Moore è circondato da una corona di luce azzurra. Se vi si guarda attraverso, direzione centro, si vedono solo poliziotti in tenuta antisommossa. Ce n'è un gruppetto anche al semaforo di Mondo Risparmio mentre più indietro, davanti alle poste centrali, due vigili immobili controllano la strada deserta. Non ce n'è nessuno invece sul lato di via Pomeria, ed è proprio in quella direzione che dal megafono annunciano la deviazione, è lì che il corteo cercare di "conquistare" la propria libertà di manifestare. Il questore ha infatti negato la richiesta di far arrivare il corteo in piazza del Comune e ora questo sembra deciso a raggiungerla lo stesso. Sono momenti concitati. La voce al megafono s'alza di un'ottava, una parte del corteo gira e sinistra e scende lungo via Pomeria. Non ci sono poliziotti, non ci sono vigili. Il corteo accelera e quelli del servizio d'ordine corrono a bloccare le auto provenienti da via Simintendi. In una manciata di secondi la manifestazione è scappata via.

Si dirige veloce verso porta Frascati. L'attraversa, risale verso il Castello. E' qui che si verifica il momento più delicato di tutta la fuga. La strada è stretta, ci sono i due marciapiedi e una fila di auto parcheggiate a ostacolare l'avanzata. La folla si diluisce, il furgone rallenta. Ad un tratto, due motociclisti della municipale sbucano da una strada laterale e scendono in senso inverso. Poi si fermano, fanno dietrofont e ripartono a tutta velocità. Il corteo risale piano piano fino a via del Ceppo Vecchio, alla cui fine è sorta nel frattempo una parete di scudi di plastica trasparente. E  all'incrocio con via San Jacopo, il corteo si ferma proprio, indeciso sul da farsi. Andare verso la polizia o cercare un'altra strada? Il furgone di un corriere sbuca all'improvviso da via Santa Chiara, attraversa la strada e imbocca via San Jacopo. Viene fermato. Il conducente e i manifestanti parlano, qualche minuto di conciliabolo e poi via, come chiunque frequenti il centro storico può capire da solo. I manifestanti cominciano a correre urlando. Fanno quasi tutta via San Jacopo, svoltano in via Modesti, sbucano tra le auto di piazza San Francesco e da lì, senza che nessuno possa fermarli, sciamano tra i pratesi pronti per l'aperitivo fino a piazza del Comune, conquistandola definitivamente.

Marco, l'indiano

Sono da poco passate le 19 e stiamo tornando in centro da piazza stazione, dove abbiamo accompagnato il gruppo di manifestanti caricati dalla polizia. Viale Vittorio Veneto sta tornando alla normalità e al semaforo di viale Arcivescovo Martini siamo un discreto gruppo di persone in attesa del verde pedonale. E' qui che Marco  - il nome è di fantasia – mi chiede della manifestazione, della polizia, di tutto quel casino. E' un uomo grosso, con una bella faccia aperta ma non per questo molto propensa al sorriso. Insieme a lui c'è la moglie, che spinge un passeggino dove dorme un bambino piccolo. "Lavoro insieme ad alcuni di loro", dice annuendo quando gli spieghiamo motivazioni e protagonisti. Non sapeva della manifestazione, ma anche sapendolo non ci sarebbe andato perché "a me mi pagano, a molti di loro no. E' così da tutte le parti". Cavargli due parole è difficile, sembra voglia raccontare un sacco di cose ma quando è lì lì per farlo si blocca, incerto. E' arrivato dall'India e  quando gli chiedo il suo vero nome  - non quello italiano con cui lo chiamano i colleghi - non capisco nemmeno la lettera con la quale comincia. "Anch'io devo avere un sacco di soldi – riprende dopo un po' – ho lavorato in tre aziende diverse prima di questa e devo ancora riscuotere diverse mesate da ognuna di loro. Funziona così per tutti". Poi chiede di Salvini, non riesce a capire perché ce l'abbia tanto con gli stranieri come lui, perché li voglia mandare via. Non so cosa rispondere se non che è la "politica" di questa epoca. Non sembra apprezzare la spiegazione. "Io vivo in Italia, lavoro in Italia, pago le tasse in Italia", ribatte Marco come se dovesse bastare questo per chiudere qualsiasi discorso. Mentre lo saluto mi dico che forse sì, prima o poi basterà davvero questo per essere considerato italiano.

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