Mio nonno sì che sapeva raccontare le cose, lui aveva il dono raro di trasformare eventi banali in vissuti epici, sapeva trasformare un inciampo in una pièce teatrale, sapeva modellare la realtà fino a renderla degna d’essere ricordata.

Ho passato assieme a lui tanto tempo, e mi sono cibato delle sue storie, fatte di guerra (quella vera con le bombe e i nazisti), di amori mai vissuti, di cene, viaggi e carte da ramino. Assieme a lui ho trascorso molti veglioni di San Silvestro, perso nelle enormi sale di palazzo Vaj, senza allora sapere che fosse, appunto, palazzo Vaj. Per me quello era solo Misoduli, ovvero una successione di stanze barocche dove gente vestita a festa giocava a carte o a tombola (almeno una volta l’anno), mangiava toast e parlava di lavoro.

Con mio nonno sono stato al Politeama quando ancora era un cinema, prima che fosse lungamente dimenticato e poi riscoperto. Ricordo la meraviglia della prima volta che vidi aprirsi il soffitto, di lì scorsi una luna che mi parve enorme. Passeggiavamo spesso per le vie del centro e spesso facevamo la spesa alle botteghe. Sempre ci fermavamo dal Fagiano, una gastronomia in via Santa Trinita, per me LA gastronomia. Ricordo che c’era un omone dietro al banco (credo si chiamasse Paolo) era sempre sorridente. Ogni volta che varcavo la soglia mi diceva questa strana frase: “se piovessero bottoni ti rimarrebbero tutti in testa!”; alludendo al fatto che portavo (mio malgrado) i capelli “a spazzola”.

Ricordo che la prima volta che me lo disse rimasi piuttosto interdetto, poi però, come sempre, mi regalava una polpetta fritta ed io smettevo di farmi domande. Dopo la visita al Fagiano andavamo da Osvaldo l’ortolano. Osvaldo aveva la sua bottega di frutta e verdura in via Carbonaia, aveva una faccia smunta con un gran nasone paonazzo al centro. Non sorrideva mai, ma con mio nonno chiacchierava fin troppo per me che ero bambino e dal verduraio dopo poco non sapevo più che fare.

Il massimo della felicità lo raggiungevo quando, coi nonni (per l’occasione erano quasi sempre presenti entrambi), per un motivo o per un altro andavamo dal Capecchi, il più bel negozio che un bimbo potesse immaginare. Un cunicolo ramificato fatto di stanze e stanzine stracolme di giocattoli. I vestiti, invece, con molta meno gioia da parte mia, li compravamo dal Lavarini. Il nonno ammantava poi tutti questi luoghi con i suoi racconti speciali, di quella volta che gli aerei tirarono una bomba in piazza del Comune, o di quando a giocare a cibbé in piazza delle Carceri un suo amico quasi ci rimise un occhio.

Ecco, lui aveva nostalgia di quella Prato che non c’era più, mentre stava vivendo una Prato che adesso non c’è più. Adesso io non ho nostalgia della Prato che ho vissuto quando ero piccolo e che non c’è se non nella sua architettura; adesso io, come immagino molti altri, ho nostalgia di ciò che c’è, e che voglio resti.

Nel corso di quaranta anni ho vissuto le molte trasformazioni di questa complicata e per questo bellissima città, e non appena mi ero adagiato a vivere la sua nuova contemporaneità, fatta di bar, pub, ristoranti, di giovani, di teatri, di un cinema (uno solo ma che vale per tre); adesso che aspettavo con trepidazione l’estate pratese 2020, e che già avevo messo gli occhi sui alcuni dei tanti eventi in cartellone, ecco, proprio adesso che mi ero per così dire adagiato nel presente, persino pensando che, forse Prato è più bella ora di quando ero mano nella mano col nonno a passeggio, perché più viva e vitale. Zac!

Di fondo non sono un tipo nostalgico, certo i ricordi mi piacciono (quelli belli, ovviamente) ma non mi ci perdo dentro, almeno non spesso. Ora però mi trovo ad essere nostalgico di cose che c’erano solo quaranta giorni fa e che voglio ritrovare al più presto. Così voglio fare un enorme in bocca al lupo a tutti i ristoratori, gli osti, i commercianti, i baristi, i teatranti, i gestori di attività, i promotori di cultura, i creatori d’eventi che hanno saputo cancellare la mia nostalgia e crearne una nuova. A loro va il mio pensiero perché si possa presto tornare a passeggiare per le vie della nostra Prato, qualcuno godendosela per quello che è e qualcun altro pensando a come era bella 40 anni fa… io che la rimpiango per com’era 40 giorni fa.

Cristiano Pacetti

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